Giornalista, scrittore, polemista, innamorato della politica e del calcio, due campi nei quali lo scontro, dialettico e fisico, è il sale. Eduardo Galeano ci ha lasciati due giorni fa a 74 anni nella sua Montevideo per un cancro ai polmoni, male che l’aveva già colto nel 2007 e per il quale era stato operato: era uno degli autori più letti e amati della letteratura sudamericana moderna, e con “Le vene aperte dell’America Latina” (1971) ha raggiunto la più popolare ed emblematica espressione del pensiero della sinistra del subcontinente, negli anni di rivolta che hanno fatto seguito alla Revolucion cubana del 1959.

Ricordato dai più per l’opera del 1971, best seller internazionale e riferimento per la sinistra terzomondista e i movimenti rivoluzionari nati in Sudamerica, ma anche in altri continenti, sulla scia della vittoria dei “barbudos” castristi all’Avana, lo scrittore nato nel 1940 nella capitale uruguagia ci ha lasciato in dote anche una piccola enciclopedia del mondo del pallone, “Splendori e miserie del gioco del calcio”, un capolavoro fatto di tante micro-storie. Il calcio è dipinto come sogno, come arte onirica, religione e bellezza, come linguaggio comune, via per riconoscersi e ritrovarsi nel mestizaje del mondo. Tifoso del Nacional di Montevideo come il poeta Mario Benedetti (che con lui e Vargas Llosa collaborò al periodico Marcha), il calcio per Galeano era figlio del popolo, che non deve cedere alle lusinghe dei potenti, di chi vuole trasformarlo in strumento per produrre denaro, uccidendo la fantasia e l’innocenza.

Una visione romantica, declinata da Galeano negli anni della gioventù: «Come tutti gli uruguagi, avrei voluto essere un calciatore. Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte mentre dormivo-raccontava di sé- durante il giorno ero il peggior scarpone che sia comparso nei campetti del mio paese». Galeano raccontava il futbol attraverso le laceranti contraddizioni del Sudamerica, la Coppa del mondo in Argentina nel 1978, gli anni tristi e crudeli di Videla, dei desaparecidos, delle mamme di piazza di Maggio. Come il compianto Osvaldo Soriano, Galeano ha utilizzato il pallone per raccontare i disagi del quotidiano, per denunciare le malefatte di politici e militari senza scrupoli, per mettere a nudo, con malinconica ironia, il malessere della società. Di Maradona diceva che giocò, vinse, pisciò, fu sconfitto. Nel suo ideale campo di gioco dispose personaggi tanto diversi quanto uniti dal calcio come Salvador Allende, Roberto Baggio, Henry Kissinger, Pier Paolo Pasolini, Marilyn Monroe, Karl Marx e Benito Mussolini. Da territorio vergine che era, Galeano aveva capito che il pallone era diventato territorio ambito per scorribande politiche e civili, ma al tempo stesso sosteneva che non avrebbe mai perso il suo sale, l’imprevedibilità e l’indefinitezza, la sua fabula e il suo èpos. «La storia del calcio è un triste viaggio dal piacere al dovere» ripeteva. Fai buon viaggio, maestro.

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