Jnah Lomu

Il suo cuore ha smesso di battere quando in Italia era ancora notte fonda. Jonah Lomu aveva 40 anni e da tempo soffriva di una rara malattia ai reni che aveva di fatto interrotto troppo presto una carriera che si annunciava fulgida. Nessuno avrebbe potuto immaginare che soltanto due decenni dopo sarebbe tutto finito.

Nel 1995 il rubgy cominciava ad aprirsi alle vaste audience planetarie, uscendo da un guscio nel quale era stato confinato per troppo tempo. Lomu fu il primo vero eroe di questo rugby globale, riuscendo in pochissimo tempo ad affascinare i tifosi. Lo fece da subito, fin dalle prime poderose falcate che sfoggiò su un campo di rugby. Un metro e 96 centimetri di altezza per 118 chili che lanciati in velocità si trasformavano in un’arma capace di abbattere gli stuoli di avversari che gli si paravano incontro.

Jonah Lomu
Jonah Lomu

«Quando correvo con la palla pensavo a ogni singola opzione a disposizione, ma, se tu non mi lasciavi altra scelta, io semplicemente ti travolgevo». Una filosofia che ricorderanno bene le squadre che nella Coppa del Mondo del 1995 si misero sulla strada sua e di quella degli All Blacks. Lomu in quella edizione segnò 15 mete (un primato che è stato raggiunto qualche mese fa dal sudafricano Brian Habana) ma non bastò alla Nuova Zelanda per sollevare la Web Ellis Cup, che era invece destinata a finire nelle mani di Nelson Mandela e del suo Sudrafica, arricchendo con un altro meraviglioso capitolo una storia già di per sé leggendaria.

È curioso come la Nuova Zelanda abbia vinto quasi metà delle coppe del mondo disputatesi finora tranne durante le due edizioni a cui Lomu prese parte. La seconda volta fu in Galles nel 1999 e stavolta il sogno degli All Blacks si infranse in semifinale contro la Francia nonostante due mete di Lomu.

Ma il gigante di origini tongane non era più lo stesso di prima. Alla fine del 1995 aveva scoperto la malattia ai reni che un pezzetto alla volta cominciava a mangiarsi quel corpo perfetto. Gonfiori, infezioni e un calvario fatto di dialisi e ricoveri culminato nel 2004 con il trapianto, grazie alla donazione di un amico. Ma nemmeno questo è stato sufficiente. «Devi sempre cercare di restare positivo, sorridente. Perché questa malattia cerca di distruggerti poco alla volta», spiegava Lomu.

Nel mezzo addii e ritorni al rugby giocato tra l’emisfero australe (Wellington, North Harbour, Auckland Blues, Chiefs, Hurricanes) e quello boreale (Cardiff Blues e Marsiglia). Tre matrimoni e due figli, nati dall’ultima moglie, che lascia all’età di 5 e 6 anni, senza essere riuscito a vedere crescere e diventare grandi, come del resto era capitato a lui con suo padre, scomparso quando era ancora giovanissimo.

Pensarlo immobile dentro una bara fa effetto. L’amaro contrappasso per un uomo nato per correre sui prati verdi inseguito dagli avversari e dall’urlo delle folle.

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