Quali sono le cause della crisi del movimento rugbistico italiano degli ultimi anni?
Perso, dimenticato da tutti o quasi, il rugby italiano è malato. Sono gli ultimi respiri di un fenomeno che sembra stia perdendo lo smalto che lo caratterizzava nel decennio 2003-2013. Da due anni a questa parte la comunità dei sostenitori del movimento rugbistico italiano vive in uno stato apatico, ma per riprendersi adesso non bastano nemmeno le vittorie contro Canada e Romania. Gli azzurri del rugby quelli belli, simpatici, ricettari della pubblicità non li vuole più nessuno. Fa male dirlo, troppe sconfitte, il trend è cambiato e il rugby non va più di moda. Non lo conosceva nessuno, è passato da sport di nicchia a sport di tutti, andando contro corrente, contro l’indifferenza, contro gli scettici, contro gli invidiosi, con coraggio e dignità. Ogni tanto una vittoria, poche ma roboanti. Non è retorica: azzurri che sfiorarono la qualificazione ai quarti alla coppa del mondo del 2011 e conquistarono il quarto posto al Sei Nazioni 2013; e poi riconoscimenti internazionali e singoli, emozioni, mete, placcaggi, giri di campo anche da sconfitti perché la gente lo pretendeva, anche per dire solamente “grazie per essere qui, mi dispiace abbiamo dato tutto.”

Ci sono più Accademie in Italia che in Nuova Zelanda, ma la cosa peggiore è che, nonostante queste strutture, i giovani talenti vengono ancora importati direttamente dal Pacifico. Si ragiona per clan territoriali, senza dimenticare le spese folli, per esempio quelle sostenute in occasione dei consigli federali, organizzati lontano, anche questi, dalla sede di Roma, come se fossero vacanze a 5 stelle. Ma la crisi è anche tecnica: su 173 ragazzi usciti dalle Accademie tra il 2006 e il 2013, solo 13 sono andati ai Mondiali. I mediani d’apertura azzurri attuali sono due di formazione estera (Allan e Haimona), uno non di formazione federale (Canna) e il solo Padovani è uscito dall’Accademia. E ancora, carenza di allenatori italiani all’altezza, mancanza di formatori di alto livello che possano guidare in maniera competente e moderna le Accademie che il presidente della FIR Gavazzi ha voluto. Delle squadre del Sei Nazioni, solo l’Inghilterra soccombe insieme a noi alla Rugby World Cup 2015. La differenza è che la federazione inglese del rugby, appena una decina di giorni dopo la chiusura del Mondiale, ha comunicato l’esonero “consensuale” dell’ex coach Stuart Lancaster e l’apertura di una fase nuova. Fondamentale era per la federazione inglese lasciarsi alle spalle l’esperienza fallimentare del mondiale e dare il via ad un nuovo progetto, affidato ad un nuovo allenatore. Poco importa se ancora non se ne consoce il nome e se tra soli tre mesi si giochi il Sei Nazioni (torneo che gli Inglesi giocano sempre per provare a vincerlo, non certo per arrivare penultimi), l’importante è far vedere che si conosce il problema e che lo si vuole sanare.

In Italia invece dopo il cocente insuccesso di Brunel e del suo staff, dopo aver visto il peggio del rugby italiano da molti anni a questa parte, Brunel è ancora al suo posto, senza avere in mano una “squadra”. Se Gavazzi volesse realmente rilanciare il settore tecnico, allora dovrebbe fare ciò che un imprenditore di un’azienda seria fa quando un ramo è in perdita e non funziona: licenziare i dirigenti, seguendo l’esempio inglese. E’ come se questa Italia avesse perso la sua identità, non la riconoscono più i tifosi, ma nemmeno il tecnico e gli stessi giocatori, uno specchio che non riflette più nulla.

di Simone Del Latte

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